La formazione è la chiave per lo sviluppo

La formazione è la chiave per lo sviluppo«I sussidi servono a sopravvivere, a ripartire. Ai giovani bisogna però dare di più: i sussidi finiranno e resterà la mancanza di una qualificazione professionale, che potrà sacrificare la loro libertà di scelta e il loro reddito futuri». Questa una delle prime frasi del discorso di Mario Draghi al Meeting di Rimini.
Ma la mancanza di “qualificazione professionale” non è una novità di oggi. Da decenni la situazione dei giovani italiani resta tra le più difficili in Europa. Dal 2000, per esempio, sappiamo che le performance scolastiche degli studenti italiani sono stabilmente sotto la media Ocse. Il numero di Neet (i giovani che non lavorano ma che al tempo stesso non studiano né sono in formazione) è da anni tra i più alti in Europa (nel 2019 siamo diventati primi superando la Bulgaria). Post-Covid il conto rischia di salire alle stelle. I mesi di assenza da scuola dovuti alla pandemia potrebbero costare, in termini di minori redditi futuri, fino a 21 mila euro per studente (moltiplicati per gli 8,4 milioni di studenti italiani significa il 10% del Pil). Ma anche chi aveva già finito gli studi e ha visto il proprio stage o lavoro interrompersi rischia di pagare la crisi a lungo negli anni a venire.
Nel caso italiano non è solo un problema di offerta di competenze. L’economia italiana, infatti, è bloccata in un equilibrio di bassa offerta di competenze da parte dei lavoratori, ma anche bassa domanda da parte delle imprese. Circa il 6% dei lavoratori italiani non ha competenze sufficienti per svolgere le proprie mansioni e il 18% possiede un titolo di studio inferiore a quello richiesto dalla professione. Il 35% dei lavoratori italiani è impiegato in settori che non corrispondono alla propria area di studio.
Dal lato imprese, soprattutto quelle medio-piccole, non ha adattato i processi produttivi e mostra competenze manageriali basse. Studi internazionali sulle pratiche manageriali mostrano per le imprese italiane punteggi inferiori a quello degli altri Paesi, mentre le filiali di imprese straniere in Italia sono comparabili a quelle in altri Paesi. Le imprese dedicano alla formazione formale solo lo 0,3% del monte salari, contro l’1% della Francia o il 2,5% del Regno Unito. Questa combinazione di bassa offerta e bassa domanda di competenze si riflette in una produttività che non cresce e salari che stagnano. Investire in formazione comporta partire dall’infanzia e accompagnare la persona lungo tutta la vita. Gli anelli più deboli rimangono l’apprendistato e la formazione continua che toccano ancora un numero limitato di persone in Italia e la qualità delle formazioni proposte resta spesso bassa o limitata al minimo previsto per legge.
Il “Fondo nuove competenze” introdotto con il decreto Rilancio per convertire temporaneamente una parte dell’orario di lavoro in formazione finanziata dallo Stato sulla base di un contratto collettivo potrebbe avere un effetto positivo sulla quantità di formazione in azienda. In attesa dei dettagli, si può solo sperare che siano previsti parametri chiari anche sulla qualità della formazione offerta. Inoltre, senza un rafforzamento della contrattazione territoriale, il Fondo resterà limitato solo ad alcune grandi imprese.
Resta, però, un problema di fondo: la formazione rimane in capo all’azienda, non alla persona. Tutto dipende dalla lungimiranza o, più prosaicamente, dalle risorse della singola impresa.

Siti di riferimento: il sole 24 ore

Tags